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ricordando lo strage di Schio 6 - 7 - 1945

Ultimo Aggiornamento: 06/07/2008 22:29
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06/07/2008 22:29

I crimini dei partigiani comunisti italiani, compiuti nel nostro Paese principalmente a guerra finita, sono stati per troppo tempo nascosti alla grande maggioranza dell'opinione pubblica. Si è preferito spesso, a partire dalla quasi totalità dei libri di testo (faziosamente unidirezionali), passare sotto silenzio questi eccidi: bisognava infatti acriticamente avallare il mito della «Gloriosa Resistenza rossa», immune da pecche ed ombre. Che invece ci furono e che determinarono episodi di una atrocità e di una violenza senza pari.

Come quello che si riferisce alla «Strage di Schio», avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 luglio 1945 (a guerra finita da più di due mesi). Una ventina di ex partigiani (in maggioranza di fede comunista) dei battaglioni Ramina Bedin, Ismene, della divisione garibaldina Ateo Garemi e della Polizia ausiliaria (istituita alla fine della guerra), sotto la direzione del comandante Igino Piva (detto «Romero») e di Valentino Bortoloso (detto «Teppa»), irrompe nel carcere di Schio per giustiziare senza processo i fascisti ivi detenuti. Nel carcere erano presenti 91 persone (99 secondo altre fonti): 5 erano della Brigata Nera, 3 della Polizia ausiliaria, 3 Ausiliarie, alcune considerate genericamente «fasciste» arrestate come tali su semplice indicazione di un partigiano. C'erano ragazze diciassettenni, donne incinte, vecchi...

Tra loro si segnalavano il Primario dell'Ospedale di Schio, Dr. Michele Arlotta, il Commissario Prefettizio, Dr. Giulio Vescovi, il Dr. Diego Capozzo, Vicecommissario Prefettizio, Anna Franco, di 16 anni, Calcedonio Pillitteri, reduce dalla Russia, ecc. partigiani comunisti non hanno però nominativi precisi; cercano elenchi che non trovano e cominciano a litigare tra loro su chi uccidere. Non potendo distinguere tra detenuti «comuni» e «politici», qualcuno propone di risparmiare almeno le donne. «Gli ordini sono ordini - replica Bortoloso - e vanno eseguiti».

Dopo un'ora di incertezza, mentre alcuni partigiani preferiscono allontanarsi, i rimanenti cominciano a mitragliare all'impazzata e massacrano a caso gli uomini e le donne incarcerate: 47 persone moriranno subito, mentre altre 7 decederanno in seguito in ospedale. L'immane carneficina farà contare in totale 54 morti, di cui 14 donne, e 17 feriti. Solo 27 risultano essere stati fascisti; nessuno di loro era allo stato legalmente incriminato, ma solo sospettato di essere iscritto al Partito fascista repubblicano, anche per banali incarichi amministrativi.

Gli esecutori agirono convinti di non correre alcun rischio da parte della giustizia italiana, perché al Ministero di Giustizia sedeva Togliatti. Il Comando Alleato, però, dette il via alle indagini ed alla fine di queste il Generale americano Dunlop, comandante dell'AMG per il Veneto, parlò chiaramente di «violenza rossa premeditata», aggiungendo che i fatti di Schio costituivano «una macchia per l'Italia, avendo avuto larga pubblicità nei giornali statunitensi, britannici e sudafricani, dove vengono considerati senza attenuanti».

Al termine dell'inchiesta alleata, dunque, si individuò una parte dei responsabili della strage; tali riscontri ebbero successivamente conferma da parte della Corte d'Assise di Milano, il 13 novembre del 1952. Degli assassini di Schio, quelli che furono arrestati e condannati sarebbero stati poi amnistiati. Quelli che invece riuscirono a sfuggire alle indagini degli alleati scapparono a Roma, rifugiandosi proprio presso l'ufficio di Palmiro Togliatti, a Roma. Così ricorda quei giorni il segretario di Togliatti, Massimo Caprara (da Il Timone, n° 24, marzo - aprile 2003): «Venire proprio lì, dove si amministra la cosiddetta giustizia dello Stato borghese», commentò il Ministro che era anche segretario del Partito comunista. Gli avevo appena riferito della visita che avevo ricevuto nel mio ufficio del Ministero a Via Arenula. «Siamo quelli di Schio», mi avevano detto quasi all'unisono tre visitatori, con il calcio malcelato di una pistola alla cintola...

Togliatti mi passò uno dei soliti piccoli fogli sui quali veniva raccolto il verbale delle riunioni ordinarie della segreteria del Pci. Lo aveva compilato lui stesso con una specie abituale di ordine maniacale. «Schio», c'era scritto a sinistra, poi in colonna a destra due altre righe: «Trasferire in luogo sicuro». Alla fine, con la collaborazione di Matteo Secchia (incaricato di tenere i rapporti con la polizia sovietica), Caprara può informare i tre di Schio sulla località in cui potranno espatriare: «La Segreteria ha deciso: Praga».

In questo modo il Ministro della Giustizia riuscì a sottrarre alla giustizia gli autori della strage ufficialmente condannata dal Pci (L'Unità aveva parlato di «provocatori trotzskisti»), e che risultavano ricercati in tutta Italia. Commenta Caprara: «Li vidi qualche anno dopo. Uscivo con Togliatti e la Jotti dalla chiesa di Tyn in Stare Mesto, la Città Vecchia della capitale cecoslovacca. Uno di loro mi venne incontro. "Ti ricordi di me? Sono di Schio", disse guardando anche Togliatti...» Aveva sparato, colpito, veniva ricercato, ma era stato assolto dal Partito e dal Partito aveva ottenuto una copertura «logistica». Si rivolse di nuovo a Togliatti e gli disse: «Torneremo presto in Italia, dopo la vittoria alle elezioni».

«L'amnistia del Guardasigilli Togliatti del 1946 - conclude Caprara - alla fine salvò i responsabili del più vasto eccidio perpetrato durante il prolungato periodo della "resa dei conti" dopo la cessazione della guerra: un fiume complessivo di sangue di oltre 15 mila vittime della politica della violenza e del rancore di classe». Già. E mette malinconia considerare che nell'attuale maggioranza governativa alcuni esponenti ricordino tuttora Togliatti come «il migliore».

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